domenica 31 marzo 2019

L'Orchestra dei Braccianti. Contro il caporalato, la Musica.


C’è una nostalgia profonda dell’Africa nella straordinaria voce pop di Joshua, nigeriano albino costretto a fuggire dalle discriminazioni nel suo paese, passando per l’inferno libico fino ad approdare in Italia. C’è invece paura e rabbia nel rap di Adam e Mbaye, emigrati da Senegal e Gambia e oggi costretti a vivere in una baracca dentro Borgo Mezzanone, uno dei ghetti più grandi d’Europa.
Joshua, Adam e Mbaye sono giovanissimi, eppure si portano addosso storie già molto difficili. Hanno attraversato il mare, lavorato nei campi del nostro Sud agli ordini dei caporali e vissuto di stenti in baracche di legno e lamiere. Una situazione che riguarda migliaia di persone come loro, confinate in favelas tutte italiane nate nella terra di nessuno, senza elettricità né acqua corrente, con il rischio di morire bruciati dall’esplosione di una bombola del gas.
Molta della forzalavoro non qualificata che raccoglie le arance, i pomodori, i meloni, l’uva e altri prodotti simbolo del nostro Made in Italy vive in queste condizioni, ai margini delle società e ai confini dei diritti umani. Un inferno che costringe alla migrazione continua, questa volta lungo lo Stivale, per seguire le stagioni di raccolta ed incontrare la domanda di lavoro bracciantile degli imprenditori agricoli. 
Ma questa domanda è in caduta libera, per la crescente meccanizzazione dell’agricoltura: così i braccianti, meno efficienti delle macchine, vengono spinti fuori mercato e i ghetti mutano composizione: da insediamenti informali per migranti che vi stazionano durante i periodi di raccolta a discariche sociali, gonfiate da migliaia di dimenticati senza più la possibilità di raccattare qualche decina di euro sotto il sole.
Se finora i governi hanno fatto molto poco per migliorare le condizioni dei migranti che vivono nei ghetti, la deriva securitaria del nuovo Ministero dell’Interno le ha perfino peggiorate. I recenti sgomberi, avvenuti senza prima pensare a soluzioni alternative, hanno gettato per strada molti abitanti di questi insediamenti, creando maggiori disagi a tutti.
Per denunciare queste condizioni di vita inaccettabili e raccontare ai cittadini lo sfruttamento che si nasconde dietro lo scaffale dei supermercati, Joshua, Adam, Mbaye e un’altra dozzina di ragazzi – grazie all’idea dell’associazione ambientalista Terra! – hanno formato unOrchestra dei braccianti. Sono 17 fra contadini, musicisti e lavoratori agricoli provenienti da 9 paesi diversi, insieme per sensibilizzare il pubblico sui temi del caporalato e dello sfruttamento lavorativo. Ne ha parlato la trasmissione Zazà, su Radio Tre, dedicata proprio all’Orchestra dei Braccianti.
L’orchestra, dopo il primo concerto dello scorso novembre, è diventata subito un fenomenale strumento di integrazione e coinvolgimento, attirando l’interesse di numerosi giornalisti, istituzioni locali, associazioni e semplici cittadini. La scommessa, per l’associazione Terra!, è trasformare il progetto in una via di uscita definitiva – per i più fragili – da condizioni di indigenza e precarietà. Questi giovani e sconosciuti talenti musicali cantano di sé, dell’Africa, del ghetto che ti ruba l’anima, dei caporali e naturalmente dell’amore per la mamma. 


Le armonie messe in scena spaziano dal folk al blues, dal pop alla musica africana e indiana, in una babele di lingue e dialetti a dimostrare la forza espressiva delle diversità. Dopo i primi concerti, l’Orchestra dei braccianti è pronta per girare l’Italia e raccontare in tante città le condizioni di chi vive in agricoltura, di chi soffre lo sfruttamento e non ha diritti, ma anche di chi cerca un riscatto grazie alla musica.

(di: Francesco Paniè, per Piazzale Europa. Persone, Luoghi Politiche.)

sabato 30 marzo 2019

Per ogni Qui c'è sempre un Là....

"Per ogni qui, c'è sempre un là..." era un brano di una canzone inserita nel famoso film d'animazione La spada nella  Roccia (Disney, 1963), nel punto in cui Mago Merlino inizia l'educazione pratica del ragazzino Semola, futuro Re Artù.
La relatività di ogni riferimento locale e di ogni identità è detta in poche parole, semplicemente, che un bambino lo capisce subito: qui non significa nulla se non in confronto ad un altrove. Noi non esistiamo se non confrontandoci con Altri. Ne consegue, evidentemente, che ogni forma di discriminazione sulla base dell'origine e della provenienza non è solo odiosa ma anche fondamentalmente dannosa: discriminando e isolandoci in pratica indeboliamo noi stessi.

Questo principio è scritto anche nella legislazione a cui facciamo riferimento: L'Art 21 della Carta dei Diritti Fondamentali dell'Unione Europea dice:  "È vietata qualsiasi forma di discriminazione fondata, in particolare, sul sesso, la razza, il colore della pelle o l'origine etnica o sociale, le caratteristiche genetiche, la lingua, la religione o le convinzioni personali, le opinioni politiche o di qualsiasi altra natura, l'appartenenza ad una minoranza nazionale, il patrimonio, la nascita, la disabilità, l'età o l'orientamento sessuale."

L'Art 3 della Costituzione Italiana lo ribadisce:
"Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale [cfr. XIV] e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso [cfr. artt. 29 c. 2, 37 c. 1, 48 c. 1, 51 c. 1], di razza, di lingua [cfr. art. 6], di religione [cfr. artt. 8, 19], di opinioni politiche [cfr. art. 22], di condizioni personali e sociali.
E` compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese."


Se la Repubblica è dunque l'articolato insieme degli enti nazionali e locali che regola la vita del Paese, anche gli enti territoriali devono concorrere per parte loro a realizzare questo principio. Ma come lo fanno?

La Regione Piemonte ad esempio ha aggiunto un ulteriore elemento normativo: la Legge Regionale n° 5 del 23/3/2016   che merita di essere conosciuta. In particolare, l'Art 1 dice:

1. La Regione, nell'ambito delle proprie competenze, opera per dare attuazione al divieto di discriminazione sancito dall'articolo 21 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea e dall' articolo 3, primo comma, della Costituzione , per dare attuazione al dovere di assicurare e promuovere l'uguaglianza sostanziale contenuto nell' articolo 3, secondo comma, della Costituzione , nonché per attuare i principi sanciti dallo Statuto regionale .

2. La Regione attua i principi e le finalità della presente legge in raccordo con le istituzioni di parità e antidiscriminatorie locali, regionali, nazionali ed internazionali, promuovendo la collaborazione con gli enti locali e il dialogo con le parti sociali e con l'associazionismo. 
Quindi gli enti locali di livello inferiore (Città Metropolitana e Comuni), le sedi locali degli enti nazionali, le associazioni e le parti sociali sono chiamate - per legge -  a collaborare nell'attuazione di questo principio.  

Ma questo accade davvero nel nostro territorio? Quali azioni vengono realizzate? Quali sono le dimensioni della presenza di cittadini stranieri?
La risposta è molto diversa a seconda dei luoghi. Si va dal comune di Chieri che si fa capofila di un "Sistema di accoglienza del Chierese" o a quello di Santena che ha dato ad un consigliere comunale un'apposita "Delega all'Accoglienza e volontariato sociale", fino ai comuni di Villastellone e Trofarello i cui sindaci si fanno notare, in merito all'accoglienza, solo quando prendono voce per ribadire la loro indisponibilità ad accogliere rifugiati e richiedenti asilo nei propri comuni. 

Per contro, il lavoro dell'associazionismo e delle realtà religiose è intenso, diffuso e capllare su tutto il territorio.

Cercheremo allora di saperne di più, nelle prossime settimane, facendo domande a persone che si occupano della questione sul territorio, sia per ragioni istituzionali che di volontariato.

giovedì 28 marzo 2019

Afro-Napoli United. Dove lo sport è (anche) politica.


Veduta di Mugnano
Mugnano è un comune di quasi 35.000 abitanti nell'area metropolitana di Napoli. Qui, circa dieci anni fa, è nata un'avventura sportiva e umana veramente straordinaria. Antonio Gargiulo, che oggi è il Presidente di Afro-Napoli United, lavorava nel consorzio di cooperative sociali Gesco, si occupava di migranti ed era (è tuttora, ovviamente) appassionato di calcio.  Assieme a due amici senegalesi, Sow Hamath e Watt Samba Babaly, Gargiulo inizia a raccogliere attorno a sé un certo numero di ragazzi stranieri con cui entra in contatto "in strada" e che mostrano di "dare del tu" al pallone. 
La convinzione che il calcio potesse essere uno strumento potente di integrazione sociale Gargiulo ce l'aveva già nel cuore da tempo;  l'idea di fare una squadra e partecipare ad un campionato amatoriale venne quasi di conseguenza; così iniziò l'avventura di Afro-napoli, "con l'obbiettivo di combattere la discriminazione e favorire la convivenza paritaria fra napoletani e miganti", come si  legge sul sito internet della società.


Ed è una storia di successi sportivi: l'Afro-Napoli United vince prima i tornei locali e quindi il campionato nazionale AICS; e intanto prende corpo l'idea di fare della squadra Afro-Napoli un progetto sociale e sportivo ambizioso e coraggioso.

Ho raggiunto telefonicamente Francesco Fasano (vicepresidente) e Pietro Varriale (Direttore Sportivo) dell'Afro-Napoli, per farmi raccontare "di prima mano" questa storia e ho trovato due persone aperte, immediatamente disponibili a raccontarsi e raccontare l'avventura, le soddisfazioni e le difficoltà del loro progetto.
Di entrambi mi ha colpito, nella voce, la spontaneità, l'entusiasmo e assieme l'attenzione a misurare ciò che si dice, perché le situazioni dei ragazzi e delle ragazze con cui hanno a che fare sono delicate, difficili. E non sono mancati i problemi. Il primo fra tutti è la difficoltà nel " tesserare" i giocatori per farli partecipare ai tornei.
Francesco Fasano
"da noi arrivavano e arrivano ragazzi che sono arrivati coi barconi, la maggior parte di loro sono da soli, non sono arrivati con la famiglia. Non hanno documenti. Noi li abbiamo seguiti sul campo a ovviamente anche fuori. Per fare i documenti, per trovare una sistemazione, un lavoro.." Mi dice Fasano.
La voce si colora di orgoglio quando aggiunge: "è una soddisfazione vedere che diversi di loro continuano a frequentarsi e a frequentare la società, anche dopo essere usciti dalla squadra".
Pietro Varriale
E Varriale aggiunge: "questi ragazzi raccontano cose difficili da ascoltare: le torture in Libia, i viaggi in barca, vedere la morte in faccia. È tutto vero.... Ma non dimentichiamo mai che la forza del nostro progetto è nei meriti sportivi..."
Fasano conferma da parte sua il messaggio egualitario che viene dalla pratica sportiva: "sul campo non ci sta chi è italiano e chi è straniero, chi è bianco e chi è nero, chi è destra e chi sinistra. Sul campo ci sta chi è più bravo e chi meno. Chi vince e chi no. E alla fine noi vinciamo quasi sempre."

E infatti, dopo i primi tre anni e dopo avere vinto il campionato nazionale AICS, all'Afro-Napoli fanno due conti e capiscono di avere un numero sufficiente di atleti con le carte in regola per essere tesserati dalla FIGC. Decidono dunque  di tentare l'avventura dei campionati federali. E i successi continuano: alla prima partecipazione vincono i tornei di terza, seconda e prima categoria e alla, seconda opportunità il Torneo di Promozione. 

Ora sono quinti in classifica nel torneo Eccellenza e puntano ad una nuova promozione. Coi meriti sportivi è arrivata anche la visibilità mediatica e l'interessamento anche da parte di club professionistici per inserire gli atleti più promettenti in chiave professionistica.


Il progetto sportivo è ormai apertamente importante: fare dell'Afro-Napoli la seconda squadra di Napoli. E assieme cresce la scommessa culturale: dare sempre maggiore visibilità al loro modello di sport come veicolo di integrazione. Perchè nel bene e nel male, nelle difficoltà e nei successi, dice convinto Francesco Fasano:  "il calcio è politica. Chi dice il contrario si sbaglia. Basta vedere cosa sta succedendo adesso col famoso "Decreto Sicurezza". Per noi è sempre più difficile tesserare gli atleti, farli giocare, aiutare a sistemarsi. E questo c'entra eccome con la politica."

Sull'Afro-Napoli,nel 2015, è stato anche girato un film:  "L'oro di Napoli" di Pierfrancesco Li Donni. Di seguito il trailer.
 



sabato 23 marzo 2019

Piero Vereni: cultura della sicurezza (e sicurezza della cultura)

Piero Vereni insegna Antropologia Culturale e gestisce un Laboratorio di Etnografia Urbana, presso la Facoltà di Filosofia dell'Università di Roma Tor Vergata. Nel suo curriculum ci sono anni passati a lavorare come portiere d'albergo per pagarsi gli studi, ricerca sul campo in Macedonia "...a Neos Kafkasos, un paesino di trecento abitanti sul confine tra Grecia (Macedonia occidentale) e Repubblica (ex Jugoslava) di Macedonia, per indagare le forme dell’appartenenza tra gli abitanti plurilingue della provincia (le lingue parlate nel villaggio: greco, slavo-macedone, greco del Ponto e della Turchia, arvanitika e vlahika) e, ancora, periodi di studio, ricerca e insegnamento a Mitilini (isola di Lesbo, Grecia), Belfast, Venezia, Lubjana (Slovenia).

I suoi interessi di ricerca attuali sono: "l’antropologia dei media e l’antropologia urbana, con una particolare attenzione per l’espressione collettiva della diversità e la formazione di identità politiche intenzionalmente «multietniche»." 
Inoltre, da alcuni anni, Vereni insegna anche ai detenuti nel Carcere di Rebibbia, associando alla propria conoscenza professionale dei "margini" culturali e linguistici, anche una competenza diretta su un tipo specifico marginalità sociale: la reclusione (qui un saggio in cui parla di questa esperienza).

Per tutte queste ragioni, le sue specifiche competenze sono particolarmente utili rispetto al nostro approfondimento #stranieri e useremo ancora i frutti del suo lavoro qui su Piazzale Europa; per le stesse ragioni, deve essere sembrato al prorettore alla didattica del suo Ateneo un docente più che appropriato da invitare a partecipare ad un workshop sulla "Cultura delle sicurezza" che si sarebbe tenuto nell'aula di rappresentanza della Facoltà, davanti ad un pubblico  costituito prima di tutto da personale delle Forze dell'ordinepersonale pubblico interessato professionalmente alla sicurezza. Funzionari del Ministero dell'Interno insomma.

Vereni ha fatto il suo intervento (potete leggerlo qui) portando il proprio sguardo di antropologo sulla nozione di "sicurezza" e sulle implicazioni sociali del simbolismo legato alle categorie di puro e impuro, ordine e disordine (secondo l'insegnamento ancora fecondo di Mary Douglas), che sono connesse al concetto di "sicurezza" e a tutti i suoi usi di carattere politico.

L'intervento è da leggere con attenzione. I Funzionari del Ministero dell'Interno si aspettavano qualcosa di più rassicurante e celebrativo del proprio ruolo (Vereni racconta nel proprio blog dell'aria ad un certo punto satura di tensione) e il Prorettore, alla fine, non sembrava contentissimo.

Il diritto di Essere. Chiamati per nome.

Don Luigi Ciotti, Fondatore di Libera
«Dobbiamo sentire che il primo diritto di ogni persona sulla faccia di questa terra è essere chiamato per nome. Non sono numeri, non sono casi, non sono utenti, sono persone.»

Con queste parole, Don Luigi Ciotti nell’intervista alla trasmissione televisiva Che Tempo Che Fa in onda domenica 17 marzo sui Rai1, ha sottolineato l’importanza della parola come strumento in grado di ridare dignità.

Il riferimento è alle 15 vittime di caporalato, tutte di origine straniera, inserite da Libera nell’ahinoi già lungo elenco di vittime innocenti delle mafie.
È un abbraccio - così lo ha definito Don Ciotti- con dignità e forza a tutte le vittime dello sfruttamento e della schiavitù.
  L’associazione “Libera - associazioni, nomi e numeri contro le mafie” da sempre si è schierata dalla parte del più debole, per difendere la dignità di ognuno, elemento necessario per la costruzione di giustizia e legalità oggi. E anche questa volta ha accolto e condiviso pienamente il messaggio preciso e concreto del suo fondatore, Luigi.
In un periodo storico in cui la paura del vicino ci ha reso sempre più sospettosi, più arrabbiati, e sempre alla ricerca di un capro espiatorio che viva una situazione di inferiorità sociale rispetto a noi, è indispensabile risvegliare le nostre coscienze, prendendo le distanze da chi fa dell’odio la base per la propria propaganda politica.

Non possiamo accettare di vivere in un clima di terrore e diffidenza. Non possiamo tollerare chi ci propone l’odio e la chiusura come unica soluzione. È necessario tornare a fare rete, a vivere in comunità e la comunità.
Libera, che fin dalla sua nascita abbraccia questi principi, non si è tirata indietro e ha deciso nuovamente di spendersi nella restituzione di dignità anche a coloro che hanno perso la vita a causa dello sfruttamento nelle nostre terre.
Contro tutti i razzismi, contro ogni classificazione, e ancora contro tutte le mafie che fanno della disgregazione sociale un punto di forza nel proprio agire, Libera prende posizione, spendendosi con forza e determinazione, anche se questo -ne siamo consapevoli- può disturbare.

Ed è per questa ragione che Sabato 23 marzo 2019, alle ore 19, durante la marcia che da Villastellone a Santena ricorderà e rinnoverà la memoria e l’impegno di tutte le vittime delle mafie, verranno letti anche i 15 nomi delle vittime del caporalato.
Perché, sempre citando le parole di Don Luigi in una sua celebre intervista, «bisogna parlare di resistenza. Perché la resistenza ha la stessa radice latina di esistere: vuol dire esserci, fare, mettersi in gioco.»

(di Paola Fazzolari, Referente del Presidio di Libera di Santena-Villastellone "Libero Grassi")

venerdì 22 marzo 2019

LA DIGNITA' DELL'ACCOGLIENZA


L’estate passata ho trascorso un paio di mesi in un piccolo paesino in provincia di Reggio Calabria, a lavorare come volontaria in uno dei CPA (Centri di Prima Accoglienza) della Cooperativa EXODUS sito in Melito di Porto Salvo. Per la prima volta sono entrata in contatto con la pratica dell’accoglienza dei migranti che, se pensavo di conoscere anche solo minimamente, mi resi conto giorno dopo giorno, non conoscere affatto.
Il compito assegnatomi fu quello di stilare le relazioni d’ingresso di alcuni degli ‘ospiti’ del centro e questo mi permise (o costrinse in un certo senso) di portarli a raccontarmi le loro storie che sarebbero poi state inserite, insieme al percorso all’interno dei centri passati, nel portfolio volto a monitorare e presentare il ragazzo alla Prefettura, alla Commissione per la Richiesta di Asilo o ad una struttura che li avrebbe presi in ‘custodia’ in un ipotetico futuro.

Guardandomi indietro, dopo aver saputo che quel centro (assieme a tutti gli altri centri di prima accoglienza della cooperativa) è stato chiuso qualche mese dopo la mia partenza, quello che provo è tanta tristezza. 
I ragazzi del centro (che erano circa una 30ina) sono stati tutti trasferiti nei CAS (Centri di accoglienza Speciali, progettati per sopperire alla mancanza di posti nei CPA) di Crotone, che ospitano centinaia e centinaia di persone: donne, uomini, ragazzi, bambini.

Basterebbe discutere con un qualsiasi ospite dei CAS per capire come questa modalità di accoglienza consenta loro sì di sopravvivere (quando non succeda che vengano lasciati per strada) ma mai lontanamente di vivere quel che si suol dire una ‘vita dignitosa.
Intrappolati in un sistema in cui l’integrazione non viene promossa, ma ostacolata.
Intrappolati in un circolo vizioso in cui il Permesso di soggiorno (se arriva) necessita di tempistiche infinite, di requisiti sempre più specifici (che escludono una maggioranza dei richiedenti asilo); un’impossibilità di avere diritto ad una residenza, che permetta di conseguenza l’apertura di un conto bancario, unico modo per stipulare un contratto lavorativo che non imponga il lavoro nero come unica alternativa.
E’ proprio questa mancanza di possibilità che congela lo status d’immigrato non consentendogli di diventare, tramite un processo d’integrazione-regolarizzazione, un cittadino.
La fortuna di aver lavorato all’interno di un CPA che adottava politiche d’integrazione volte all’inserimento di ciascuno dei ragazzi in un contesto scolastico,  lavorativo e sociale, mi ha dato la possibilità di capire quanto qualsiasi altra forma di accoglienza possa solo favorire questa stasi in cui si passano tot mesi in un centro, successivamente si viene spostati in quell’altro, poi quell’altro, poi magari si finisce per strada o in baraccopoli e tendopoli sparse nel sud Italia (e non solo).

L’accoglienza è un compito. Come i genitori hanno il dovere di crescere i propri figli ed insegnarli a ‘stare al mondo’, analogamente coloro che si occupano della gestione dei centri dovrebbero essere formati per preparare, colui che arriva da un contesto e da una società completamente estranea alla ‘nostra’, ad inserirsi in quest’ultima, essendo indipendente e pronto ad autogestirsi.  

Questa formazione spesso, per diverse ragioni, manca. Coloro che si occupano di gestire centinaia di africani non conoscono la loro cultura, la loro lingua, la loro storia. Coloro che hanno il compito di esaminare le richieste di asilo spesso non conoscono la situazione politica della Nigeria, o del Congo, o del Burkina Faso; non conoscono la legislazione di taluni paesi e di conseguenza non comprendono o non accettano le causali che spingono donne, uomini e bambini ad intraprendere il viaggio della salvezza verso l’Europa, con tutto ciò che questo comporta.

Ricordo la felicità sul viso di Abdellatif, 40enne marocchino, alla notizia di convocazione per il permesso di soggiorno. Quell’uomo aveva lasciato a casa suo padre (malato), sua moglie ed il suo bambino di appena 3 anni. Non riuscendo a mantenere la famiglia con il suo stipendio di macellaio a Casablanca ha lasciato tutto ed è partito per la Libia alla ricerca di un lavoro più remunerativo. Arrivato là, sfruttato e percosso ha deciso d’imbarcarsi per l’Italia. Ogni giorno, durante la mia permanenza, lo vedevo uscire presto la mattina per andare a lavorare nei campi(assieme ad altri ragazzi) e tornare per cena la sera, distrutto, con 10 euro nella tasca. E quale risposta darsi, se non la necessità di prendersi cura della propria famiglia?

Mi è stato insegnato, tanto dai dipendenti del centro quanto dagli stessi ospiti, che ci sono step fondamentali per un’accoglienza efficiente, senza i quali i centri rimangono meri luoghi di soggiorno più o meno temporanei.

Senza corsi di lingua non ci sarà crescita, né inserimento, né tantomeno integrazione. Il linguaggio, che ci permette di entrare in contatto con la società, è fondamentale. Dai bisogni primari a quelli secondari: un qualsiasi uomo deve poter comunicare con il proprio vicino. Le relazioni si basano sulla parola. Senza parola, non si possono creare legami (o, per lo meno, è quasi impossibile farlo).
Se non avessi conosciuto l’inglese ed il francese, non avrei mai potuto conoscere le storie, i racconti ed i pensieri che affollavano la mente di quei ragazzi. Non avrei mai saputo che Djakaridja, giovane ivoriano laureato in legge, si era stufato degli sguardi e delle parole dei passanti e aveva deciso di cambiare strada alla sola vista di un italiano.

Senza conoscenza approfondita delle capacità, degli studi e delle esperienze lavorative del soggetto in questione, non si potrà mai indirizzare quest’ultimo verso un inserimento lavorativo. Non immaginiamo neanche (o forse non ci sforziamo di farlo) quante abilità, soprattutto manuali, abbiano coloro che arrivano da luoghi dove l’uomo ha ancora la supremazia sull’industria, sui macchinari e sui robot.
Pabi, un ragazzo ganese, un giorno ha comprato un grande telo da spiaggia mentre facevamo una passeggiata. La sera si è presentato con un bellissimo vestito ‘african style’ prodotto in meno di un’ora.

Troppi sono i braccianti (ossia uomini, donne, ragazzi e ragazze ai quali viene imposto il lavoro della terra) che popolano le nostre campagne, troppo il lavoro in nero che li costringe a 8-9-10 ore di lavoro nei campi ogni giorno. Troppe poche sono le monete che ripagano questa fatica. Troppe le testimonianze di chi vive questa condizione come unica alternativa alla vita illegale (come se questa non lo fosse). 
Troppi i giudizi di chi non comprende, non avendole mai viste, le condizioni di chi, non avendo più diritto ad essere ospitato all’interno di un centro, è costretto a vivere nelle baraccopoli. Paiono una discarica viste dall’alto e man mano che ti avvicini prendono forma e si mostrano in tutto il loro essere: un agglomerato di centinaia di baracche fatte con lastre di alluminio o altro materiale di scarto, fredde d’inverno e estremamente calde d’estate, sudice tanto all’interno quanto all’esterno.

Una condizione che mi viene da rendere con una sola parola: disumana. La mancanza d’assistenza sanitaria e sociale rende il tutto ancora più squallido. L’idea che dopo un infortunio sul lavoro o in ambiente “domestico” tu non possa essere tutelato e non abbia diritto a ricevere cure e medicinali, rende chi questa situazione l’ha creata e la protrae, un essere immorale ed ignobile.
Ringrazio Mohammad, un ragazzo di 30anni che si è offerto di portarmi nella baraccopoli di Rosarno facendomi passare la giornata a girovagare tra le baracche, a mostrarmi le condizioni igieniche dei ‘bagni pubblici’ (in cui spesso l’acqua non arriva), a prendere una bevanda energetica per sopportare il caldo asfissiante in uno dei bar-baracca che popolano quel piccolo ghetto (che chiamo così senza disprezzo, non sapendo quale parola più giusta utilizzare). Ringrazio di essere invitata a pranzare da un uomo nigeriano che festeggiava il recente ricongiungimento con la moglie ed il figlio.

Quel figlio aveva 4 anni all’incirca. Ma come vivrà la sua infanzia? Quali possibilità gli verranno offerte?
Quale istruzione?   Quale tutela?   Quale dignità?




La dignità dell’accoglienza è la presa di coscienza da parte nostra, come cittadini e come uomini, delle storie e delle condizioni che questi migranti vivono ed hanno vissuto; è la professionalità e la cura che le associazioni impiegano nello svolgere il loro lavoro; è (o meglio, dovrebbe essere) la tutela e l’adozione di determinate pratiche e leggi da parte delle istituzioni e dei più alti organi di governo volte all’inserimento dei nuovi futuri cittadini del nostro Stato; è la revisione della Convenzione di Dublino e del Decreto Sicurezza. È la restituzione dei diritti dell’uomo e del rifugiato in un paese (e un continente) che si presenta al mondo come civilizzato e democratico.





giovedì 21 marzo 2019

La strage di Christchurch


Se la terribile strage di cinquanta mussulmani in preghiera a Christchurch in Nuova Zelanda per mano di un fanatico suprematista bianco ci ha tolto il fiato e la parola, la risposta che la prima ministra neozelandese Jacinda Ardern ha dato in Parlamento ci ha restituito la speranza che la pace sia possibile, come ha detto, nel nome “della diversità, della gentilezza, della compassione.
Queste parole hanno segnato un confine nuovo, chiaro e attivo tra il razzismo, anche nella sua forma attuale del suprematismo bianco, il sovranismo in tutte le sue declinazioni, e le società e le persone che scelgono di vivere nel segno dell'accoglienza e della solidarietà: “Siamo e rimarremo un rifugio per chi condivide i nostri valori”.
Perchè quella strage non è stata solo morte, violenza e dolore, ma è stata anche un messaggio politico lanciato con tutti i mezzi, a partire dai social: “Con il suo atto terroristico cercava molte cose, e tra queste la notorietà”. La notorietà propria e di quella ideologia, il suprematismo bianco, che oggi lavora intensamente per avvelenare le menti e armare le persone di odio e di violenza.
Il tema che è stato rilanciato a Christchurch è “la grande sostituzione”, teoria secondo cui nell'occidente sarebbe in atto, in ogni parte del mondo, una sostituzione degli europei, razza superiore e detentrice di una cultura superiore, con gli immigrati. Gli immigrati, l'ossessione dei sovranisti di casa nostra e, come si vede, non solo di quelli di casa nostra.
Ci sono molti elementi che si accavallano nel messaggio lanciato con la strage di Christchurch. Il razzismo, prima di tutto, anche così estremo, in Occidente non è fenomeno minoritario, marginale, ma è profondamente radicato nella storia, che sia stato di matrice religiosa, contro gli ebrei dal medioevo in poi, di matrice economica, nell'epoca del colonialismo e della tratta degli schiavi africani, di matrice arianista con il nazismo. La bestia terribile continua a vivere dentro la trasformazione sociale di questo tempo ed esce, sempre più aggressiva, a mano a mano che tante persone vengono spinte ai margini, perdono riferimenti sociali, valoriali, cercano un nemico contro cui sfogare l'impotenza derivante dalla propria sconfitta.
La globalizzazione fa emergere la figura dell'immigrato come figura unificata del razzismo contemporaneo. L'immigrato è l'altro nella sua completezza, per territorio, per lingua, per cultura, per religione, per colore della pelle. Viene per sostituirmi, è l'invasore. Spuntano allora le sentinelle dell'Occidente che presidiano la loro fortezza scrutando il loro personale “deserto dei tartari” da dove arriveranno i nemici. Spuntano i teorici di una sottocultura fatta di paura, di risentimento, ma anche di violenza, di radicalità nelle parole e nelle azioni, che viaggia in rete, che si mescola a messaggi politici di isolamento e aggressività, sfacciata nell'imporsi con ogni mezzo.
Infine la terribile solitudine che oggi attanaglia le persone, che cancella la cittadinanza, l'esistenza ed il bisogno di una comunità, che spinge alla ribellione solitaria che cerca nell'eco di altrettante ribellioni il senso di un nuovo stare insieme, nel branco. È un branco sparso, il suo linguaggio unificante è quello dei videogiochi “spara e uccidi”. Un branco che si riconosce in gesti individuali, pubblici e pubblicizzati dalla velocità delle notizie, efferati per essere facilmente amplificati, e tra quelli è annoverata non a caso la strage di Macerata.
Questo è ciò che ci dice la mattanza di Christchurch, non fatto isolato, ma anello di una catena che cerca di imprigionarci. Le parole di Jacinda Ardern ci hanno dato conforto, ma tocca a ciascuno di noi non lasciarle cadere. Perchè ci aspetta una lunga marcia nel buio.

PONTI E NON MURI ... la storia di "Un Ponte per Gaza"


In un mondo in cui, pare, ci siano più uomini disposti a costruire muri piuttosto che ponti, abbiamo deciso di andare controcorrente e, il 30 marzo del 2018 si è costituito il comitato: Un Ponte per Gaza, comitato non violento nato per sostenere a distanza la lotta del popolo palestinese per la libertà, la giustizia e l'uguaglianza attraverso l'informazione e non solo.
 Crediamo profondamente che pari diritti debbano essere riconosciuti a ebrei israeliani e arabi palestinesi e ci opponiamo a qualsiasi forma di discriminazione, razzismo, fascismo, antisemitismo, islamofobia. Data significativa il 30 marzo perchè a 4000 km di distanza da noi, i palestinesi celebrano la "Giornata Internazionale della Terra - Yom Al Ard"  ricorrenza che risale al 1976 quando migliaia di persone, cittadini palestinesi in Israele, si riunirono per protestare contro l'espropriazione di altra terra palestinese in Galilea.
Il 30 Marzo 2018 inizia anche a Gaza la Grande Marcia del Ritorno, manifestazione pacifica che ogni venerdì ha coinvolto centinaia di uomini, donne, bambini, giovani e anziani della società civile palestinese e che ha come fine la rivendicazione dei loro diritti e primo fra tutti il diritto al ritorno nelle loro case, nelle loro terre, come sancito dalla risoluzione 194. Le manifestazioni sarebbero dovute terminare il 15 maggio, data che ricorda la nascita dello Stato di Israele ma che coincide con "Al Nakba", "la catastrofe", che nel 1948 ha visto circa 700.000 palestinesi cacciati dalle loro case e dalle loro terre. 
Le manifestazioni non sono terminate il 15 maggio, continuano ancora oggi e le bandiere che avevamo messo sui nostri balconi il 30 Marzo dello scorso anno sono ancora lì, per ricordare che a 4000 km di distanza, i palestinesi attendono che i loro diritti vengano riconosciuti. Ad oggi durante le manifestazioni pacifiche più di 250 palestinesi sono stati uccisi, tra cui donne, bambini, giornalisti e personale paramedico e circa 25000 sono i feriti, alcuni dei quali resi invalidi permanenti a causa delle amputazioni degli arti rese necessarie, a volte, a causa del blocco terra/mare/aria imposto da Israele sulla Striscia di Gaza da 12 anni. Tale blocco, infatti,  impediva spesso ai feriti di recarsi in ospedali più attrezzati fuori dalla Striscia di Gaza o impediva l'ingresso di farmaci o attrezzatura medica necessaria per rifornire gli ospedali
Ed ecco i fatti concreti che siamo riusciti a realizzare grazie anche e soprattutto alla collaborazione delle Istiutuzioni che in questo particolare contesto hanno svolto un ruolo fondamentale:
Nel mese di giugno dello scorso anno abbiamo presentato una proposta di mozione per chiedere l'embargo militare nei confronti di Israele al Comune di Torino. La proposta è stata accolta dalla congliera Artesio di Torino in Comune e il 9 Luglio 2018 la mozione è stata approvata.
Se qualcuno si domanda perchè la richiesta di un embargo militare nei confronti di Israele, rispondiamo che è nostro dovere come cittadini invitare le Istituzioni ad applicare le leggi quando queste vengono ignorate. La legge 185 del 1990 all'art 1. comma 6 cita: L'esportazione ed il transito di materiali di armamento sono altresì vietati:  [...] 
d) verso i Paesi i cui governi sono responsabili di accertate violazioni delle convenzioni internazionali in materia di diritti dell'uomo. E Israele è responsabile di queste violazioni come dichiarato nelle risoluzioni Onu. Anche Amnesty International, nel giugno dello scorso anno, ha rinnovato la sua richiesta ai governi affinché, dopo la sproporzionata risposta alle manifestazioni nei pressi della barriera che lo separa dalla Striscia di Gaza, fosse imposto un embargo sulle armi dirette a Israele. (https://www.amnesty.it/le-uccisioni-ferimenti-illegali-dei-manifestanti-gaza-necessario-embargo-sulle-armi-israele/).
Inoltre nel 2014, durante l'operazione Margine Protettivo a Gaza, la Rete per il disarmo, che raggruppa le principali organizzazioni italiane impegnate sui temi del disarmo e del controllo degli armamenti, chiese al governo italiano di sospendere immediatamente l'invio di armi e sistemi militari a Israele e invitò a farsi promotore di questa misura presso l'Unione Europea. Ricordiamo che nel 2014 l'Italia era il principale fornitore europeo di materiale militare nei confronti di Israele.
Nel mese di novembre abbiamo presentato una proposta di mozione che chiedeva al nostro Sindaco di intervenire presso il Governo Italiano affinchè si attivasse rapidamente per scongiurare la demolizione definitiva, momentaneamente congelata dal governo di Netanyhau, Bibi, della scuola di gomme costruita grazie alla Ong italiana Vento di Terra e del villaggio dei beduini Jahalin di Khan Al Ahmar. Ricordiamo che la comunità internazionale ha definito la distruzione del villaggio e la deportazione della popolazione un "crimine diguerra".  La proposta di mozione è stata accolta dal Gruppo Consiliare del nostro territorio "Proposta" ed è stata approvata a larga maggioranza dal Consiglio Comunale il 29 Novembre 2018, data importante ... perchè coincide con la "Giornata Mondiale di Solidarietà al Popolo Palestinese" riconosciuta dall'Onu nel 1977  .... nulla capita mai per caso!
Abbiamo organizzato presso il Centro Culturale Marzanati di Trofarello due eventi nel mese di ottobre e novembre 2018 in collaborazione con Sami Hallac, palestinese, che riguardavano una rassegna cinematografica di cortometraggi di vita quotidiana in terra di Palestina ed in particolare a Gerusalemme e a Gaza. I cortometraggi facevano parte della rassegna AL ARD Film Festival di Cagliari.
Tra dicembre e gennaio abbiamo distribuito alcune copie del libro "Gaza.Restiamo Umani" scritto da Vittorio Arrigoni, attivista italiano per la pace, ucciso a Gaza il 15 Aprile del 2011. Libro scritto durante l'operazione Piombo Fuso a Gaza tra il 27 dicembre 2008 e il 18 gennaio 2009, Vittorio era l'unico reporter italiano che potesse descrivere ciò che stava accadendo in quei giorni ed inviava i suoi articoli a "Il Manifesto". (http://www.infopal.it/piombo-fuso-quattro-anni-fa-restiamo-umani/)
I libri sono stati consegnati all'Istituto Vittone e al Liceo Monti di Chieri, al liceo Majorana di Moncalieri, alla nostra biblioteca intitolata a Lelio Basso, Padre Costituente, che tra i vari scritti ne dedicò uno alla "Questione palestinese" (redatto intorno agli anni 70 ma ancora molto attuale e che vi invitiamo a leggere) e un'altra copia del libro è stata donata alla biblioteca dell'Università Cà Foscari di Venezia.
Ogni libro è accompagnato da una dedica speciale, scritta da Egidia Beretta, mamma di Vittorio Arrigoni. Ricordiamo solo un breve passo tratto dal libro alla fine del primo giorno di bombardamenti : "Faranno il deserto, e lo chiameranno pace. Il silenzio del “mondo civile” è molto più assordante delle esplosioni che ricoprono la città come un sudario di terrore e morte.Restiamo umani."
Per concludere, a fine anno abbiamo sostenuto a distanza con una modesta campagna di crowfounding, alcune famiglie di Gaza, semplicemente contribuendo all'acquisto di beni di prima necessità: cibo, pannolini e latte in polvere.
Il prossimo 22 Marzo inizierà il nostro percorso 2019 con un evento organizzato al Marzanati dal titolo "La questione palestinese: un caso di colonialismo e apartheid nel XXI secolo". Ne parleremo con il prof. Norberto Julini, consigliere nazionale di Pax Christi e coordinatore di Società Civile per la Palestina. Vi porteremo in viaggio in Palestina proponendovi il tour "Pellegrinaggio di Giustizia" per ricordare a tutti che in quella terra bellissima ma martoriata potrebbero un giorno convivere pacificamente ebrei, mussulmani, cristiani, israeliani e palestinesi.
Vi invitiamo quindi a partecipare e provare a costruire insieme a noi una riflessione, consapevoli del fatto che non possiamo più rimanere in silenzio!

martedì 19 marzo 2019

Dossier #stranieri

Gli "stranieri" del Milan, alla fine degli anni '40
Abbiamo spiegato in precedenza,  nel post "Piazzale Europa, un gruppo che parla di politica..." le ragioni della scelta di costruire uno spazio di discussione comune e, quando serve, parlare con una voce condivisa. Ora, finalmente, andiamo sul concreto e partiamo col primo approfondimento: #stranieri.
 
Si tratta di una categoria che negli ultimi anni è stata a lungo centrale nel discorso pubblico in Italia, sia quello strettamente politico e sia, più in generale, nello spazio dell'informazione, della cronaca e della comunicazione sui social media.
Nell'ultima parte della scorsa legislatura, alla pressante campagna di comunicazione del centro-destra sul tema dell'invasione e della sicurezza urbana minacciata dagli stranieri ha fatto eco l'azione dell'allora Ministro dell'Interno Marco Minniti per frenare gli sbarchi dei migranti mediante accordi e finanziamenti elargiti alle milizie che controllano il territorio costiero libico (un po' pomposamente presentate all'opinione pubblica italiana come Guardia costiera libica"). In seguito, già in piena campagna elettorale per le politiche del 4/3/2018, il dibattito generato dal tentativo in extremis (peraltro fallito) del Pd di far passare in Parlamento la legge sullo Ius Soli ha ulteriormente polarizzato le posizioni e le sensibilità sul tema.
Anche la successiva campagna elettorale è stata efficacemente ancorata dalla Lega di Matteo Salvini ai temi dell'invasione e della conseguente minaccia alla sicurezza e alle risorse degli italiani; tale tema ha continuato a tenere banco nei mesi successivi per effetto delle scelte controverse del Governo ed in particolare del nuovo Ministro dell'Interno, sulla cosiddetta "chiusura dei porti" e infine per effetto della discussione e approvazione, nell'autunno 2018, del cosiddetto "decreto Sicurezza".
Nel frattempo, al ripetersi di episodi di razzismo sempre più gravi e frequenti, (punteggiati dalla reazione sempre più allarmata  del mondo cattolico e della sinistra), ha sempre corrisposto l'atteggiamento noncurante e minimizzante degli  esponenti delle forze di governo (Lega e M5S), ha fatto da sfondo all'intera questione.  Ora, a distanza di qualche mese, il tema non occupa più il centro della scena comunicativa, non si sente quasi più parlare di "invasione", eppure una serie di conseguenze importanti questi lunghi mesi le hanno lasciate, sia di ordine pratico e sia di carattere relazionale.

Lampedusa, minori "ospiti" a Contrada Imbriacola
Anche noi di Piazzale Europa, nell'affrontare la questione, ci siamo inconsapevolmente ritrovati "schiacciati" (per così dire) sui temi imposti negli ultimi anni dalle destre al discorso pubblico italiano, per cui la questione #stranieri si è presentata in modo del tutto naturale ai nostri occhi principalmente come la questione dei migranti, da declinare logicamente secondo le urgenze dell'accoglienza, del diritto di asilo, dell'integrazione, dei problemi dei rifugiati. Tali temi erano anche già stati trattati su Piazzale Europa, nei mesi scorsi, in relazione alla nota vicenda dell'inchiesta a carico di Mimmo Lucano ex Sindaco di Riace, ma anche per raccontare la vertenza dei lavoratori agricoli di Castelnuovo Scrivia, o per trattare della questione palestinese e di un gruppo di lavoro trofarellese che da qualche tempo se ne occupa attivamente  (vedi anche  qui). E su questi aspetti si tornerà ancora, con diversi interventi

Tuttavia, basta pensarci un po' su per vedere chiaramente che il tema è più ampio. Anche numericamente, l'esperienza dei rifugiati e dei richiedenti asilo, non è il fenomeno più importante che riguarda la vita dei cittadini stranieri sul nostro territorio: si tratta di poco più di 130.000 persone, secondo i dati UNCHR, mentre i lavoratori stranieri regolarmente occupati sono oltre 2.400.000 (dati del Ministero del Lavoro).
Chiedono almeno altrettanta attenzione, è evidente, i problemi della vita quotidiana, del lavoro, del welfare, dell'istruzione dei figli di questi  milioni di cittadiini, regolarmente residenti e insediatisi in Italia nel corso di differeni ondate migratorie ormai da alcuni decenni. E prestare questa attenzione significa anche, per noi, non permettere che altri ci impongano una percezione emergenziale e securitaria della categoria "stranieri". Innanzi tutto dobbiamo ricominciare a guardare coi nostri occhi e pensare con la nostra  testa

MaxGluckman
Nel 1961 un antropologo inglese che faceva ricerca nelle città minerarie dell'allora Rhodesia e del Sudafrica, Max Gluckman, ebbe a scrivere che: "un cittadino africano è un cittadino, un minatore africano è un minatore". I lavoratori stranieri sono prima di tutto lavoratori; è centrale - di conseguenza - il tema del lavoro. Quello regolare e quello (come accade a tutti i lavoratori) troppo spesso irregolare, insicuro e precario, dei lavoratori e delle lavorarici straniere che caratterizzano ad esempio i comparti dell'assistenza alla persona, dell'agricoltura, dell'edilizia.

In tutti questi casi, per i cittadini regolari e residenti da più tempo, come per quelli irregolari o arrivati da poco e ancora in attesa di avere uno status ben definito, quel che è successo nella società italiana di questi anni, ha complicato molto la vita: Iirapporti con "gli italiani" si sono fatti più difficili, l'accesso alle istituzioni più difficile, le disposizioni  del "decreto sicurezza" hanno interrotto storie anche ben avviate di integrazione e inserimento sociale.

Abbiamo dunque deciso di procedere in questa direzione, perchè non intendiamo inseguire urgenze e temi del momento imposti da altri ma desideriamo osservare la realtà e approfondire le cose con la dovuta attenzione. E abbiamo deciso di procedere raccontando delle storie, che riguardano il nostro territorio ma non solo, perchè la nostra contemporaneità è fatta ad un tempo di relazioni personali e notizie ricevute da sconosciuti su internet, di code agli sportelli ma anche di acquisti online. E' una realtà complessa sulla quale proviamo a riflettere e discutere scegliendo e raccontando una serie di storie:  storie di persone, storie di associazioni, di enti ed imprese , delle politiche che queste realizzano o evitano di realizzare.

E poi abbiamo provato ad alzare lo sguardo, a considerare  come viene vista e stereotipata l'idea di ciò che è straniero in ambienti apparentemente lontani dalle questioni dell'accoglienza e del razzismo. Ad esempio, nella diffusione dei cibi, della ristorazione, della danza, della musica cosiddetti "etnici" o nella realizzazione di eventi  commerciali come i "Festival dell'Oriente", del Western, del'Irlanda, eccetera.

La sorprendente differenza di rappresentazioni di ciò che è straniero ci può forse aiutare a capire meglio la natura tutta politica di alcune contrapposizioni identitarie che si sono imposte nella nostra vita recente e  a trovare un modo altrettanto politico per reagire. Almeno  è quello che speriamo.

Metodologicamente, affronteremo questi temi attraverso una serie di  "post" che saranno pubblicati su Piazzale Europa nelle prossime settimane sotto l'etichetta #migranti e che, speriamo, potranno provocare commenti e discussioni già nella loro vita online. Ma non ci limiteremo a questo, organizzeremo qualche evento, magari avanzeremo delle proposte. Si vedrà. Di sicuro, contiamo di interessare e coinvolgere altri in questo "comprensione di gruppo".