C’è una
nostalgia profonda dell’Africa nella straordinaria voce pop di
Joshua, nigeriano albino costretto a fuggire dalle discriminazioni
nel suo paese, passando per l’inferno libico fino ad approdare in
Italia. C’è invece paura e rabbia nel rap di Adam e Mbaye,
emigrati da Senegal e Gambia e oggi costretti a vivere in una baracca
dentro Borgo Mezzanone, uno dei ghetti più grandi d’Europa.
Joshua, Adam e
Mbaye sono giovanissimi, eppure si portano addosso storie già molto
difficili. Hanno attraversato il mare, lavorato nei campi del nostro
Sud agli ordini dei caporali e vissuto di stenti in baracche di legno
e lamiere. Una situazione che riguarda migliaia di persone come loro,
confinate in favelas tutte italiane nate nella terra di nessuno,
senza elettricità né acqua corrente, con il rischio di morire
bruciati dall’esplosione di una bombola del gas.
Molta della forzalavoro non qualificata che raccoglie le arance, i pomodori, i meloni,
l’uva e altri prodotti simbolo del nostro Made in Italy vive in
queste condizioni, ai margini delle società e ai confini dei diritti
umani. Un inferno che costringe alla migrazione continua, questa
volta lungo lo Stivale, per seguire le stagioni di raccolta ed
incontrare la domanda di lavoro bracciantile degli imprenditori
agricoli.
Ma questa domanda è in caduta libera, per la crescente
meccanizzazione dell’agricoltura: così i braccianti, meno
efficienti delle macchine, vengono spinti fuori mercato e i ghetti
mutano composizione: da insediamenti informali per migranti che vi
stazionano durante i periodi di raccolta a discariche sociali,
gonfiate da migliaia di dimenticati senza più la possibilità di
raccattare qualche decina di euro sotto il sole.
Se finora i
governi hanno fatto molto poco per migliorare le condizioni dei
migranti che vivono nei ghetti, la deriva securitaria del nuovo
Ministero dell’Interno le ha perfino peggiorate. I recenti
sgomberi, avvenuti senza prima pensare a soluzioni alternative, hanno
gettato per strada molti abitanti di questi insediamenti, creando
maggiori disagi a tutti.
Per denunciare
queste condizioni di vita inaccettabili e raccontare ai cittadini lo
sfruttamento che si nasconde dietro lo scaffale dei supermercati,
Joshua, Adam, Mbaye e un’altra dozzina di ragazzi – grazie
all’idea dell’associazione ambientalista Terra! – hanno formato
un’Orchestra
dei braccianti. Sono 17 fra contadini, musicisti e lavoratori
agricoli provenienti da 9 paesi diversi, insieme per sensibilizzare
il pubblico sui temi del caporalato e dello sfruttamento lavorativo. Ne ha parlato la trasmissione Zazà, su
Radio Tre, dedicata proprio all’Orchestra dei Braccianti.
L’orchestra,
dopo il primo concerto dello scorso novembre, è diventata subito un
fenomenale strumento di integrazione e coinvolgimento, attirando
l’interesse di numerosi giornalisti, istituzioni locali,
associazioni e semplici cittadini. La scommessa, per l’associazione
Terra!, è trasformare il progetto in una via di uscita definitiva –
per i più fragili – da condizioni di indigenza e precarietà.
Questi giovani e sconosciuti talenti musicali cantano di sé,
dell’Africa, del ghetto che ti ruba l’anima, dei caporali e
naturalmente dell’amore per la mamma.
Le
armonie messe in scena spaziano dal folk al blues, dal
pop alla musica africana e indiana, in una babele di lingue e
dialetti a dimostrare la forza espressiva delle diversità. Dopo i
primi concerti, l’Orchestra dei braccianti è pronta per girare
l’Italia e raccontare in tante città le condizioni di chi vive in
agricoltura, di chi soffre lo sfruttamento e non ha diritti, ma anche
di chi cerca un riscatto grazie alla musica.
(di: Francesco Paniè, per Piazzale Europa. Persone, Luoghi Politiche.)
(di: Francesco Paniè, per Piazzale Europa. Persone, Luoghi Politiche.)
La storia di questa orchestra dei braccianti è importante. Mi piace questo "post", che descrive l'universo in marcia perenne dei raccoglitori e fa pensare ad ultro universo in cammino, quello descritto da Steinbeck in Furore, i contadini americani dell'Oklahoma del Kansas e del Texas immiseriri dalla Grande Depressione e dalla siccità che si riversarono sulla Route 66 verso la "terra promessa" della California. La terra promessa si rivelò in realtà una sorta di giardino spinato in cui l’agribusiness californiano dettava condizioni di lavoro disumane, trasformando i migranti in raccoglitori stagionali sottopagati e privati di ogni diritto.
RispondiEliminaNell'Italia di inizio XXI secolo il Furore è simile agli USA del primo '900, anche se qui il proletariato immiserito viene soprattutto da altrove. È già un esercito di migranti che arriva da Furori ancora più grandi.