venerdì 22 marzo 2019

LA DIGNITA' DELL'ACCOGLIENZA


L’estate passata ho trascorso un paio di mesi in un piccolo paesino in provincia di Reggio Calabria, a lavorare come volontaria in uno dei CPA (Centri di Prima Accoglienza) della Cooperativa EXODUS sito in Melito di Porto Salvo. Per la prima volta sono entrata in contatto con la pratica dell’accoglienza dei migranti che, se pensavo di conoscere anche solo minimamente, mi resi conto giorno dopo giorno, non conoscere affatto.
Il compito assegnatomi fu quello di stilare le relazioni d’ingresso di alcuni degli ‘ospiti’ del centro e questo mi permise (o costrinse in un certo senso) di portarli a raccontarmi le loro storie che sarebbero poi state inserite, insieme al percorso all’interno dei centri passati, nel portfolio volto a monitorare e presentare il ragazzo alla Prefettura, alla Commissione per la Richiesta di Asilo o ad una struttura che li avrebbe presi in ‘custodia’ in un ipotetico futuro.

Guardandomi indietro, dopo aver saputo che quel centro (assieme a tutti gli altri centri di prima accoglienza della cooperativa) è stato chiuso qualche mese dopo la mia partenza, quello che provo è tanta tristezza. 
I ragazzi del centro (che erano circa una 30ina) sono stati tutti trasferiti nei CAS (Centri di accoglienza Speciali, progettati per sopperire alla mancanza di posti nei CPA) di Crotone, che ospitano centinaia e centinaia di persone: donne, uomini, ragazzi, bambini.

Basterebbe discutere con un qualsiasi ospite dei CAS per capire come questa modalità di accoglienza consenta loro sì di sopravvivere (quando non succeda che vengano lasciati per strada) ma mai lontanamente di vivere quel che si suol dire una ‘vita dignitosa.
Intrappolati in un sistema in cui l’integrazione non viene promossa, ma ostacolata.
Intrappolati in un circolo vizioso in cui il Permesso di soggiorno (se arriva) necessita di tempistiche infinite, di requisiti sempre più specifici (che escludono una maggioranza dei richiedenti asilo); un’impossibilità di avere diritto ad una residenza, che permetta di conseguenza l’apertura di un conto bancario, unico modo per stipulare un contratto lavorativo che non imponga il lavoro nero come unica alternativa.
E’ proprio questa mancanza di possibilità che congela lo status d’immigrato non consentendogli di diventare, tramite un processo d’integrazione-regolarizzazione, un cittadino.
La fortuna di aver lavorato all’interno di un CPA che adottava politiche d’integrazione volte all’inserimento di ciascuno dei ragazzi in un contesto scolastico,  lavorativo e sociale, mi ha dato la possibilità di capire quanto qualsiasi altra forma di accoglienza possa solo favorire questa stasi in cui si passano tot mesi in un centro, successivamente si viene spostati in quell’altro, poi quell’altro, poi magari si finisce per strada o in baraccopoli e tendopoli sparse nel sud Italia (e non solo).

L’accoglienza è un compito. Come i genitori hanno il dovere di crescere i propri figli ed insegnarli a ‘stare al mondo’, analogamente coloro che si occupano della gestione dei centri dovrebbero essere formati per preparare, colui che arriva da un contesto e da una società completamente estranea alla ‘nostra’, ad inserirsi in quest’ultima, essendo indipendente e pronto ad autogestirsi.  

Questa formazione spesso, per diverse ragioni, manca. Coloro che si occupano di gestire centinaia di africani non conoscono la loro cultura, la loro lingua, la loro storia. Coloro che hanno il compito di esaminare le richieste di asilo spesso non conoscono la situazione politica della Nigeria, o del Congo, o del Burkina Faso; non conoscono la legislazione di taluni paesi e di conseguenza non comprendono o non accettano le causali che spingono donne, uomini e bambini ad intraprendere il viaggio della salvezza verso l’Europa, con tutto ciò che questo comporta.

Ricordo la felicità sul viso di Abdellatif, 40enne marocchino, alla notizia di convocazione per il permesso di soggiorno. Quell’uomo aveva lasciato a casa suo padre (malato), sua moglie ed il suo bambino di appena 3 anni. Non riuscendo a mantenere la famiglia con il suo stipendio di macellaio a Casablanca ha lasciato tutto ed è partito per la Libia alla ricerca di un lavoro più remunerativo. Arrivato là, sfruttato e percosso ha deciso d’imbarcarsi per l’Italia. Ogni giorno, durante la mia permanenza, lo vedevo uscire presto la mattina per andare a lavorare nei campi(assieme ad altri ragazzi) e tornare per cena la sera, distrutto, con 10 euro nella tasca. E quale risposta darsi, se non la necessità di prendersi cura della propria famiglia?

Mi è stato insegnato, tanto dai dipendenti del centro quanto dagli stessi ospiti, che ci sono step fondamentali per un’accoglienza efficiente, senza i quali i centri rimangono meri luoghi di soggiorno più o meno temporanei.

Senza corsi di lingua non ci sarà crescita, né inserimento, né tantomeno integrazione. Il linguaggio, che ci permette di entrare in contatto con la società, è fondamentale. Dai bisogni primari a quelli secondari: un qualsiasi uomo deve poter comunicare con il proprio vicino. Le relazioni si basano sulla parola. Senza parola, non si possono creare legami (o, per lo meno, è quasi impossibile farlo).
Se non avessi conosciuto l’inglese ed il francese, non avrei mai potuto conoscere le storie, i racconti ed i pensieri che affollavano la mente di quei ragazzi. Non avrei mai saputo che Djakaridja, giovane ivoriano laureato in legge, si era stufato degli sguardi e delle parole dei passanti e aveva deciso di cambiare strada alla sola vista di un italiano.

Senza conoscenza approfondita delle capacità, degli studi e delle esperienze lavorative del soggetto in questione, non si potrà mai indirizzare quest’ultimo verso un inserimento lavorativo. Non immaginiamo neanche (o forse non ci sforziamo di farlo) quante abilità, soprattutto manuali, abbiano coloro che arrivano da luoghi dove l’uomo ha ancora la supremazia sull’industria, sui macchinari e sui robot.
Pabi, un ragazzo ganese, un giorno ha comprato un grande telo da spiaggia mentre facevamo una passeggiata. La sera si è presentato con un bellissimo vestito ‘african style’ prodotto in meno di un’ora.

Troppi sono i braccianti (ossia uomini, donne, ragazzi e ragazze ai quali viene imposto il lavoro della terra) che popolano le nostre campagne, troppo il lavoro in nero che li costringe a 8-9-10 ore di lavoro nei campi ogni giorno. Troppe poche sono le monete che ripagano questa fatica. Troppe le testimonianze di chi vive questa condizione come unica alternativa alla vita illegale (come se questa non lo fosse). 
Troppi i giudizi di chi non comprende, non avendole mai viste, le condizioni di chi, non avendo più diritto ad essere ospitato all’interno di un centro, è costretto a vivere nelle baraccopoli. Paiono una discarica viste dall’alto e man mano che ti avvicini prendono forma e si mostrano in tutto il loro essere: un agglomerato di centinaia di baracche fatte con lastre di alluminio o altro materiale di scarto, fredde d’inverno e estremamente calde d’estate, sudice tanto all’interno quanto all’esterno.

Una condizione che mi viene da rendere con una sola parola: disumana. La mancanza d’assistenza sanitaria e sociale rende il tutto ancora più squallido. L’idea che dopo un infortunio sul lavoro o in ambiente “domestico” tu non possa essere tutelato e non abbia diritto a ricevere cure e medicinali, rende chi questa situazione l’ha creata e la protrae, un essere immorale ed ignobile.
Ringrazio Mohammad, un ragazzo di 30anni che si è offerto di portarmi nella baraccopoli di Rosarno facendomi passare la giornata a girovagare tra le baracche, a mostrarmi le condizioni igieniche dei ‘bagni pubblici’ (in cui spesso l’acqua non arriva), a prendere una bevanda energetica per sopportare il caldo asfissiante in uno dei bar-baracca che popolano quel piccolo ghetto (che chiamo così senza disprezzo, non sapendo quale parola più giusta utilizzare). Ringrazio di essere invitata a pranzare da un uomo nigeriano che festeggiava il recente ricongiungimento con la moglie ed il figlio.

Quel figlio aveva 4 anni all’incirca. Ma come vivrà la sua infanzia? Quali possibilità gli verranno offerte?
Quale istruzione?   Quale tutela?   Quale dignità?




La dignità dell’accoglienza è la presa di coscienza da parte nostra, come cittadini e come uomini, delle storie e delle condizioni che questi migranti vivono ed hanno vissuto; è la professionalità e la cura che le associazioni impiegano nello svolgere il loro lavoro; è (o meglio, dovrebbe essere) la tutela e l’adozione di determinate pratiche e leggi da parte delle istituzioni e dei più alti organi di governo volte all’inserimento dei nuovi futuri cittadini del nostro Stato; è la revisione della Convenzione di Dublino e del Decreto Sicurezza. È la restituzione dei diritti dell’uomo e del rifugiato in un paese (e un continente) che si presenta al mondo come civilizzato e democratico.





1 commento:

  1. Molto bello articolo. Vivo, partecipato, capace di portarci al'interno dellabaraccopoli di Rosarno,nel caldo asfissiante, senza l'acqua... ecco vorrei riprendere quel brano in particolare:
    "Ringrazio Mohammad, un ragazzo di 30anni che si è offerto di portarmi nella baraccopoli di Rosarno facendomi passare la giornata a girovagare tra le baracche, a mostrarmi le condizioni igieniche dei ‘bagni pubblici’ (in cui spesso l’acqua non arriva), a prendere una bevanda energetica per sopportare il caldo asfissiante in uno dei bar-baracca che popolano quel piccolo ghetto..."
    In un altro post qui su Piazzale Europa, Francesco Paniè nel parlarci dell'Orchestra dei Braccianti ci racconta un'altra baraccopoli, quella di Borgo Mezzanone in Puglia, la descrive come un ghetto, una favela italiana. (https://piazzaleuropa.blogspot.com/2019/03/lorchestra-dei-braccianti-contro-il.html) E vediamo ancora in un altro post: "Ne Yi Beeogo ... significa Buongiorno! " (https://piazzaleuropa.blogspot.com/2019/04/ne-yi-beeogo-significa-buongiorno.html) che è proprio garantire il diritto all'acqua potabile l'obbiettivo di un progetto di aiuto internazionale organizzato fra Moncalieri e il Burkina Faso.
    L'acqua che manca "a casa loro" ma anche al loro arrivo in Italia. Un diritto umano fondamentale che non è garantito a tutti neanche "a casa nostra" (e il problema non riguarda solo stranieri, migranti e baraccopoli, ma anche città e quartieri di mattoni e cemento.
    Perchè non sembra che il probema sia il colore della pelle, ma la classe sociale.
    Molte inchieste e testimonianze dirette sembrano dirci che è sopra una base sociale miserabile, ricattabile e sfruttata che si regge la filiera agroalimentare, una rete che risale fino ai negozi e agli scaffali supermercati, alle bancarelle del mercato rionale, fin dentro i nostri frigoriferi e nei conti economici di importanti imprese italiane e internazionali, non tutte legali.

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