giovedì 7 novembre 2019

Perché i libanesi continuano a scendere in piazza

 Dal 17 ottobre il Libano è soggetto ad un'ondata di proteste che hanno toccato il paese da nord a sud. 
La decisione governativa di applicare una tassa giornaliera di 20 centesimi di dollaro per l’utilizzo di whatsapp è stata la miccia che ha spinto migliaia di libanesi a riversarsi nelle piazze.
La pressione dei manifestanti in quel primo giorno è stata tale da far ritirare la misura dopo poche ore dall'emanazione. 
Come spiegare allora l’insistenza e la consistenza delle richieste di chi oggi rischia di perdere il lavoro per partecipare alle proteste? O dei giovani che si rifiutano di tornare tra i banchi universitari e liceali? Come spiegare il coraggio di quelli che a gran voce invocano i nomi dei propri politici accompagnandoli da aggettivi come “criminali” e “corrotti”?
Fonte @jadsafi (instagram)
  “Al-sha’ab iurid isqat al-nizam” - il popolo vuole la caduta del governo – gridano in coro donne, uomini, ragazze, ragazzi, bambine e bambini che partecipano ai cortei. Uno slogan che richiama subito a quel momento fondamentale della storia mediorientale: le primavere arabe. In quegli anni il Libano non era stato toccato dalle rivolte che avevano infiammato le città tunisine, marocchine, algerine, egiziane, siriane e irachene ed è forse anche per questo che manifesta oggi un decennio di rivendicazioni represse.

Risale al 1916 la causa del malcontento della popolazione. In quell’anno Francia e Gran Bretagna si spartirono, tramite gli Accordi di Skyes-Pykot, le regioni dell'Impero Ottomano in via di disintegrazione. La Francia “guadagnò” quei territori che corrispondono oggi alla Siria ed al Libano e decise, sotto il dettame del dividi et impera, di disegnare a tavolino dei confini senza tener conto delle differenze religiose e culturali proprie di quei luoghi.
In Libano, attraverso il Patto Nazionale del 1946, che definiva lo stato confessionale (la suddivisione delle cariche politiche in base alla percentuale della popolazione -appartenente a ciascuna confessione-), la Francia pose i cristiani maroniti in una netta posizione di supremazia e privilegio. Questa manovra diede inizio a quelle politiche discriminatorie alla base delle dei risentimenti e della netta separazione tra le diverse confessionalità - che nel paese sono 18- e che portarono a diversi scontri culminati con i quindici anni di guerra civile. 
Gli Accordi di Ta’if del 1989 che sancirono la fine della guerra e che rimisero in discussione e riequilibrarono la suddivisione dei poteri, non furono comunque abbastanza incisivi da diminuire la separazione e la diffidenza tra le diverse comunità.

Il primo riavvicinamento si ebbe nel 2015, quando si riunirono nelle piazze di Beirut migliaia di manifestanti, appartenenti a diverse confessionalità, per denunciare l’incapacità del governo nella gestione e nello smaltimento dei rifiuti. Fu anche la prima occasione in cui misero in discussione i propri leader politici ma la misura e la maniera differiscono da oggi.

Ciò che caratterizza le manifestazioni libanesi cominciate ad ottobre è innanzitutto la motivazione che spinge la gente a scendere in piazza: il rigetto totale del confessionalismo politico, la volontà di trasformare il Libano in uno stato civile con maggiore autonomia locale e che guardi ai bisogni della sua popolazione attuando politiche che mirino a diminuire la disoccupazione e rendere più accessibile l’educazione e l’assistenza sanitaria.

La totale sfiducia nella classe dirigente, rappresentata da quelle stesse famiglie al potere da più di trent’anni, ha portato i manifestanti a chiedere la deposizione di tutti gli esponenti governativi.
Il 29 ottobre, i manifestanti hanno raggiunto il primo traguardo con le dimissioni del Primo Ministro, Sa’ad Hariri, ma questo non basta.
Kullun ia’ni kullun’tutti significa tutti – ripetono in coro i dimostranti, a rafforzare la loro posizione irremovibile nei confronti di una classe politica che ha portato grandi ricchezze ad un numero limitato di persone. La tassa su whatsapp è stata l'ennesima manifestazione di questa politica ed una gran parte dei libanesi, e di altre nazionalità presenti sul territorio, vive sotto la soglia di povertà o in condizioni tali da costringere i più giovani a scegliere la via dell’emigrazione.

Un’altra peculiarità di questo movimento è il suo essere presente non solo nella capitale, a Beirut (com’era stato nelle manifestazioni precedenti), ma anche nelle altre maggiori città: Tiro, Sidone e Tripoli.
Nei primi giorni si sono bloccate le strade e si è creata una catena umana che ha attraversato il paese da nord a sud. Successivamente si sono indetti scioperi generali e si sono chiuse le scuole ed impedita l’apertura delle banche.

Ovviamente il governo non ha tardato a farsi sentire e a tentare di sopprimere in diversi modi queste rivolte.
I partiti sciiti di Amal ed Hezbollah hanno esercitato violenze contro i manifestanti utilizzando spranghe e manganelli ed intimidazioni verbali che han generato paura e sconforto.
Il Presidente cristiano maronita Michel Aoun ha organizzato delle manifestazioni parallele chiamando a raccolta i suoi sostenitori ed appoggiando con parole vuote le richieste dei manifestanti di attuare delle riforme.  

Ma tutti significa tutti ed il popolo vuole la caduta del regime. I manifestanti non intendono arrendersi alle intimidazioni del governo poichè il movimento è ormai radicato e radicale, per quanto non sia mai sfociato in atti violenti.
Si attende una risposta del governo che ha tre possibilità davanti: cedere alle pressioni dei manifestanti, assecondarli attuando riforme ma mantenendosi al potere o utilizzare il pugno di ferro per reprimere totalmente questa tarda primavera libanese.