Beirut non è più la città che avevo lasciato un mese prima dello scoppio delle proteste. Crocevia fin dai tempi antichi di scambi di merci e di persone che dalla penisola arabica andavano e venivano dall’estremo oriente, dall’Europa e dall’Africa. Centro multiculturale e multietnico dove nel passato e nel presente hanno coesistito decine di etnie, confessioni e culture diverse.
Per decenni, Beirut ha rappresentato non solo la capitale del Libano ma lo specchio della
nazione tutta, con le sue contraddizioni e divisioni che qua si son fatte più
tangibili. Povertà e ricchezza, quartieri cristiani, musulmani, zone druse ed armene,
quattro campi profughi nati per accogliere temporaneamente i palestinesi del
’48 e che oggi ospitano non solo le generazioni successive degli stessi ma
anche tutti quei siriani, iracheni, africani ed asiatici che hanno creduto di
poter trovare rifugio o una vita più dignitosa in questa città. Edifici segnati
dalle cicatrici della guerra e resti dell’epoca romana, bizantina e fenicia
affiancati da palazzi di lusso destinati alla piccola borghesia (o meglio,
oligarchia) libanese e straniera. L’odore di smog e di rifiuti non smaltiti nei
quartieri più negletti. Il rumore di un traffico continuo di persone, macchine,
bus e motorini nel centro e nelle periferie della città. Un movimento costante
ma al contempo stagnate. Un’accettazione dello status quo, della corruzione e
delle disuguaglianze. Una volontà di fuggire ma l’impossibilità di farlo. La
paura di tirar fuori la propria voce e combattere per la giustizia propria e
dei propri concittadini.
Uno dei muri costruiti in Ryad al Soloh. |
Seppur qualche luogo paia rimasto intoccato dalla rivolta, i muri degli edifici ed i nuovi muri a Downtown, appositamente costruiti per impedire l’avvicinamento al Parlamento ed alla sede del governo, parlano e testimoniano l’oppressione, la rabbia, la speranza e la forza di un popolo dimostrati in questi 118 giorni di protesta. Proprio qui, accanto alla Grande Moschea fatta costruire da Rafiq Hariri -il capostipite di quella politica che ha portato migliaia di persone a rivoltarsi– ancora oggi, centinaia di libanesi occupano le strade con le loro tende in segno di protesta quotidiana.
Le nuove tasse sull’utilizzo di whatsapp,
altre applicazioni di telefonia e su alcuni beni di consumo (tra cui benzina e
tabacco) imposte il 16 Ottobre dal governo Hariri sono state solo la goccia che
ha fatto traboccare il vaso. Le premesse affondano le loro radici in decenni di
manovre ultra-liberiste ed anti-democratiche. Gli accordi di Ta’if negi anni
’90 hanno visto nascere una nuova classe politica (che ha mantenuto alcuni dei familiari
o gli stessi carnefici di stragi durante la guerra civile) che ha iniziato e
legittimato politiche volte ad arricchire la stessa oltre che le banche ed i
grandi imprenditori. Ancora oggi, continuano a essere queste tre entità (quell’1%
che detiene circa il 65% della ricchezza totale del paese) che rubano dalle
casse dello Stato (alias dei cittadini) ciò che potrebbe permettere la
rinascita e la ricostruzione di un’economia nazionale volta al benessere della
sua popolazione. Oltre a ciò, dal 2008, a seguito della la prima grande crisi
economica, i prezzi hanno cominciato ad aumentare, il lavoro a scarseggiare,
gli stipendi ad abbassarsi e la dipendenza a capitali e direttive straniere ad
incrementare. Già le proteste del 2015 hanno visto migliaia di persone riversarsi
nelle strade della città per manifestare contro l’inquinamento, il mancato
smaltimento dei rifiuti e per una prima messa in discussione di quel sistema
che ha privatizzato ospedali, università, scuole, istituzioni, banche togliendo
la possibilità di creare un’economia ed una ricchezza nazionale.
A causa di ciò, nel tempo è maturato un sentimento condiviso di oppressione e di rabbia che il 17 Ottobre ha portato migliaia di libanesi a scendere per strada sovrastando i rumori della città.
A causa di ciò, nel tempo è maturato un sentimento condiviso di oppressione e di rabbia che il 17 Ottobre ha portato migliaia di libanesi a scendere per strada sovrastando i rumori della città.
Nello sfondo, un vecchio teatro danneggiato dai bombardamenti della guerra civile. Uno delle centinaia di edifici mai restaurati. |
“Tutti
significa tutti” continuano a gridare nelle strade di Beirut per rimarcare la
totale sfiducia negli esponenti politici che hanno guidato il paese negli
ultimi 30 anni. Da sottolineare anche come questi, per mantenersi al governo e
placare i dissensi cresciuti poco a poco negli anni, abbiano basato il loro
appoggio politico sulla “trappola” della Wasta. Un sistema coercitivo che
assicura aiuti economici, sanitari e lavorativi in cambio di voti e che impedisce
a chi ne diventa dipendente ogni qual forma di dissenso diretto o indiretto.
Questo è uno dei motivi per cui oggi non si ha ancora la maggioranza di persone
nelle piazze e per cui le divisioni tra i manifestanti e i non si fanno più
nette. Chi ha ancora una stabilità economica ed un lavoro assicurato teme di
perdere i propri privilegi e difende l’artefice che li ha resi possibili, non
comprendendo chi non vuole abbassare la testa sottomettendosi ad un sistema che
è e sarà sempre sfruttatore, diseguale e settario.
“Noi
siamo la rivoluzione popolare, voi siete la guerra civile”. Il ricordo degli
scontri, dei morti e della paura rimane scolpito nella mente delle vecchie e
nuove generazioni ed i politici giocano questa carta per infondere timore e dissuadere
la popolazione dallo scendere nelle piazze. Oltre a ciò, negli ultimi mesi, i
manifestanti han fatto esperienza di violenze di ogni tipo da parte delle forze
dell’ordine o di affiliati ai diversi partiti. Più volte sono state distrutte
le tende dei manifestanti, più volte questi ultimi sono stati attaccati di
persona o tramite armi e gas lacrimogeni, decine sono i ragazzi che hanno perso
un occhio per colpa di un proiettile di gomma puntato dritto sul viso e fino ad
oggi sono sei i martiri della Rivoluzione. Quotidiane sono le minacce alla
propria persona, alle proprie famiglie e alle postazioni di lavoro.
L’occupazione, o meglio la disoccupazione, è uno degli strumenti più efficaci
per far desistere. “Se sappiamo che partecipi alla rivoluzione, non sperare di
ripresentarti a lavoro” questa una delle intimidazioni riportate da più
manifestanti.
“La rivoluzione è donna” ricordano ragazzi,
donne, uomini ed i muri che le raffigurano in ogni lato e sotto ogni forma. Lo
si capisce anche dalle voci che si levano più forti quando sono loro a guidare
i cori e dalla contrapposizione che fanno, senza timore, tra l’esercito e le
forze di sicurezza da una parte e gli uomini ed i ragazzi che vogliono
proteggere dall’altra. Non demordono nonostante tutte le botte che hanno preso,
tutto il gas che hanno respirato, le incarcerazioni e le intimidazioni che
hanno ricevuto. Non hanno neanche bisogno di ricordare quale sia il significato
di ‘eguaglianza’ e di ‘parità di sessi’ perché in questa rivoluzione tutti sono
uguali, ognuno resiste a proprio modo ed ognuno ha un compito. Chi fronteggia
la polizia, chi blocca le strade, chi coordina le cucine e postazioni che
forniscono cibo ogni giorno per i manifestanti, chi scrive per i siti e
giornali indipendenti che sono sorti all’alba di quel 17 Ottobre, chi blocca i
turisti che passano per la piazza e racconta la storia e le idee della Rivoluzione,
chi fa della propria tenda una lotta ben precisa – come le donne per il diritto
a dare la nazionalità ai propri figli o quella per i malati di cancro che
chiedono la sanità pubblica-, chi tiene conferenze e seminari di politica,
economia, agricoltura, società. Proprio da questi ultimi stanno emergendo, poco
a poco ed in maniera spontanea, delle personalità -spesso giovani- indipendenti
o appartenenti a partiti minoritari o gruppi civili, che sono in grado di
analizzare e spiegare le reali problematiche del paese, proponendo alternative
reali.
Interno di una delle tende affaciata in Piazza dei Martiri. |
Intanto però la svalutazione della lira
aumenta, così come aumentano i prezzi, gli sfratti, i licenziamenti e la fame
della gente. Oggi puoi prelevare 200$ ogni due settimane ed i pagamenti online
non possono superare quella cifra. Così, la popolazione poco a poco viene
chiusa in una gabbia sempre più stretta, impossibilitata anche a lasciare il
paese.
La rabbia cresce e porta sempre più cittadini
a porsi domande, a ricercare le cause. È in questo modo che si comincia a
mettere in discussione il sistema, chi l’ha creato, chi lo alimenta e a che
scopo lo fa. Si comincia a dubitare di tutto quello che ripetono da anni in
televisione e si iniziano a cercare delle risposte e delle alternative. Queste
non si possono che trovare nelle strade, nelle piazze, nelle tende e nei comizi
di tutti quei gruppi o singoli che si ritrovano e discutono per ore ogni
settimana da quel fatidico 17 Ottobre. Non si trovano solo delle risposte,
delle possibili soluzioni al proprio problema e a quello del proprio vicino.
Ritrovi anche lui, il vicino, quello che appartiene ad una religione ed
estrazione diversa, che per motivi diversi anche lui si è stancato della povertà
dilaniante, della divisione e lontananza che qualcuno dall’alto ha imposto,
della corruzione del sistema economico, politico e sociale che hanno costruito.
Lui ne sa di economia e tu ne sai di legge. Vi scambiate le informazioni che
possedete e discutete. Poco dopo si aggiunge alla discussione una terza ragazza
che viene da una città di montagna ed ha deciso di fermarsi nella capitale per
accrescere le grida che si ergono al di là dei muri costruiti per ‘proteggere’
il parlamento. Lei si è laureata tre anni fa in diplomazia ma non è ancora
riuscita a trovare lavoro. È giovane, non ha niente da perdere ma tutto da
donare. È sveglia, forte e porta con se tanta speranza, proprio come la
Rivoluzione.
· - Tutto ciò che
è stato riportato riguarda la città di Beirut che porta con se, logicamente, la
più grande partecipazione di cittadini, tanto per la sua posizione strategica
di capitale (con il Parlamento ed altre Istituzioni messe in discussione dai
manifestanti) quanto per il tasso più alto di popolazione tra le città
libanesi.
- La Guerra Civile libanese durò dal 1975 al 1990 e si concluse con la sigla degli accordi di Ta’if. Il bilancio dei morti non è preciso ma se ne contano a migliaia tra la resistenza palestinese ed i musulmani, cristiani e drusi libanesi.