giovedì 5 marzo 2020

BEIRUT, DOVE LA SPERANZA E LE GRIDA SOVRASTANO I RUMORI DELLA CITTA’

Beirut non è più la città che avevo lasciato un mese prima dello scoppio delle proteste. Crocevia fin dai tempi antichi di scambi di merci e di persone che dalla penisola arabica andavano e venivano dall’estremo oriente, dall’Europa e dall’Africa. Centro multiculturale e multietnico dove nel passato e nel presente hanno coesistito decine di etnie, confessioni e culture diverse. 
Artista di Art for Changhe intento a raffigurare la poltrona di un parlamentare. Nello sfondo, la Grande Moschea.
Piazza dei Martiri (Downtown)
Per decenni, Beirut ha rappresentato non solo la capitale del Libano ma lo specchio della nazione tutta, con le sue contraddizioni e divisioni che qua si son fatte più tangibili. Povertà e ricchezza, quartieri cristiani, musulmani, zone druse ed armene, quattro campi profughi nati per accogliere temporaneamente i palestinesi del ’48 e che oggi ospitano non solo le generazioni successive degli stessi ma anche tutti quei siriani, iracheni, africani ed asiatici che hanno creduto di poter trovare rifugio o una vita più dignitosa in questa città. Edifici segnati dalle cicatrici della guerra e resti dell’epoca romana, bizantina e fenicia affiancati da palazzi di lusso destinati alla piccola borghesia (o meglio, oligarchia) libanese e straniera. L’odore di smog e di rifiuti non smaltiti nei quartieri più negletti. Il rumore di un traffico continuo di persone, macchine, bus e motorini nel centro e nelle periferie della città. Un movimento costante ma al contempo stagnate. Un’accettazione dello status quo, della corruzione e delle disuguaglianze. Una volontà di fuggire ma l’impossibilità di farlo. La paura di tirar fuori la propria voce e combattere per la giustizia propria e dei propri concittadini.

Uno dei muri costruiti in Ryad al Soloh.
A distanza di cinque mesi, non è esagerato affermare che tutto è cambiato.
Seppur qualche luogo paia rimasto intoccato dalla rivolta, i muri degli edifici ed i nuovi muri a Downtown, appositamente costruiti per impedire l’avvicinamento al Parlamento ed alla sede del governo, parlano e testimoniano l’oppressione, la rabbia, la speranza e la forza di un popolo dimostrati in questi 118 giorni di protesta. Proprio qui, accanto alla Grande Moschea fatta costruire da Rafiq Hariri -il capostipite di quella politica che ha portato migliaia di persone a rivoltarsi– ancora oggi, centinaia di libanesi occupano le strade con le loro tende in segno di protesta quotidiana.

Le nuove tasse sull’utilizzo di whatsapp, altre applicazioni di telefonia e su alcuni beni di consumo (tra cui benzina e tabacco) imposte il 16 Ottobre dal governo Hariri sono state solo la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Le premesse affondano le loro radici in decenni di manovre ultra-liberiste ed anti-democratiche. Gli accordi di Ta’if negi anni ’90 hanno visto nascere una nuova classe politica (che ha mantenuto alcuni dei familiari o gli stessi carnefici di stragi durante la guerra civile) che ha iniziato e legittimato politiche volte ad arricchire la stessa oltre che le banche ed i grandi imprenditori. Ancora oggi, continuano a essere queste tre entità (quell’1% che detiene circa il 65% della ricchezza totale del paese) che rubano dalle casse dello Stato (alias dei cittadini) ciò che potrebbe permettere la rinascita e la ricostruzione di un’economia nazionale volta al benessere della sua popolazione. Oltre a ciò, dal 2008, a seguito della la prima grande crisi economica, i prezzi hanno cominciato ad aumentare, il lavoro a scarseggiare, gli stipendi ad abbassarsi e la dipendenza a capitali e direttive straniere ad incrementare. Già le proteste del 2015 hanno visto migliaia di persone riversarsi nelle strade della città per manifestare contro l’inquinamento, il mancato smaltimento dei rifiuti e per una prima messa in discussione di quel sistema che ha privatizzato ospedali, università, scuole, istituzioni, banche togliendo la possibilità di creare un’economia ed una ricchezza nazionale. 
A causa di ciò, nel tempo è maturato un sentimento condiviso di oppressione e di rabbia che il 17 Ottobre ha portato migliaia di libanesi a scendere per strada sovrastando i rumori della città.
Nello sfondo, un vecchio teatro danneggiato dai bombardamenti della
guerra civile. Uno delle centinaia di edifici mai restaurati.
 “Tutti significa tutti” continuano a gridare nelle strade di Beirut per rimarcare la totale sfiducia negli esponenti politici che hanno guidato il paese negli ultimi 30 anni. Da sottolineare anche come questi, per mantenersi al governo e placare i dissensi cresciuti poco a poco negli anni, abbiano basato il loro appoggio politico sulla “trappola” della Wasta. Un sistema coercitivo che assicura aiuti economici, sanitari e lavorativi in cambio di voti e che impedisce a chi ne diventa dipendente ogni qual forma di dissenso diretto o indiretto. Questo è uno dei motivi per cui oggi non si ha ancora la maggioranza di persone nelle piazze e per cui le divisioni tra i manifestanti e i non si fanno più nette. Chi ha ancora una stabilità economica ed un lavoro assicurato teme di perdere i propri privilegi e difende l’artefice che li ha resi possibili, non comprendendo chi non vuole abbassare la testa sottomettendosi ad un sistema che è e sarà sempre sfruttatore, diseguale e settario.

 “Noi siamo la rivoluzione popolare, voi siete la guerra civile”. Il ricordo degli scontri, dei morti e della paura rimane scolpito nella mente delle vecchie e nuove generazioni ed i politici giocano questa carta per infondere timore e dissuadere la popolazione dallo scendere nelle piazze. Oltre a ciò, negli ultimi mesi, i manifestanti han fatto esperienza di violenze di ogni tipo da parte delle forze dell’ordine o di affiliati ai diversi partiti. Più volte sono state distrutte le tende dei manifestanti, più volte questi ultimi sono stati attaccati di persona o tramite armi e gas lacrimogeni, decine sono i ragazzi che hanno perso un occhio per colpa di un proiettile di gomma puntato dritto sul viso e fino ad oggi sono sei i martiri della Rivoluzione. Quotidiane sono le minacce alla propria persona, alle proprie famiglie e alle postazioni di lavoro. L’occupazione, o meglio la disoccupazione, è uno degli strumenti più efficaci per far desistere. “Se sappiamo che partecipi alla rivoluzione, non sperare di ripresentarti a lavoro” questa una delle intimidazioni riportate da più manifestanti.

“La rivoluzione è donna” ricordano ragazzi, donne, uomini ed i muri che le raffigurano in ogni lato e sotto ogni forma. Lo si capisce anche dalle voci che si levano più forti quando sono loro a guidare i cori e dalla contrapposizione che fanno, senza timore, tra l’esercito e le forze di sicurezza da una parte e gli uomini ed i ragazzi che vogliono proteggere dall’altra. Non demordono nonostante tutte le botte che hanno preso, tutto il gas che hanno respirato, le incarcerazioni e le intimidazioni che hanno ricevuto. Non hanno neanche bisogno di ricordare quale sia il significato di ‘eguaglianza’ e di ‘parità di sessi’ perché in questa rivoluzione tutti sono uguali, ognuno resiste a proprio modo ed ognuno ha un compito. Chi fronteggia la polizia, chi blocca le strade, chi coordina le cucine e postazioni che forniscono cibo ogni giorno per i manifestanti, chi scrive per i siti e giornali indipendenti che sono sorti all’alba di quel 17 Ottobre, chi blocca i turisti che passano per la piazza e racconta la storia e le idee della Rivoluzione, chi fa della propria tenda una lotta ben precisa – come le donne per il diritto a dare la nazionalità ai propri figli o quella per i malati di cancro che chiedono la sanità pubblica-, chi tiene conferenze e seminari di politica, economia, agricoltura, società. Proprio da questi ultimi stanno emergendo, poco a poco ed in maniera spontanea, delle personalità -spesso giovani- indipendenti o appartenenti a partiti minoritari o gruppi civili, che sono in grado di analizzare e spiegare le reali problematiche del paese, proponendo alternative reali.

Interno di una delle tende affaciata in Piazza dei Martiri.
A più di cento giorni dall’inizio delle sollevazioni che hanno interessato da subito tutto il paese tanto nelle grandi città quanto nei paesini di provincia, i numeri sono diminuiti ma la consapevolezza e l’organizzazione crescono di giorno in giorno. La risposta istituzionale inizialmente è stata quella di formare un nuovo governo che presenta oggi gli stessi nomi – salvo poche new entry affiliate agli stessi vecchi partiti– e le stesse politiche. La seconda mossa è stata la promessa di attuare riforme e presentare un nuovo piano economico per risanare il debito e ricostruire un’economia nazionale. Questo, a detta dell’elite politica, prevederebbe un ulteriore addebitamento al Fondo Monetario Internazionale che porterebbe alla svendita e privatizzazione delle poche istituzioni rimaste pubbliche che causerebbe un collasso ancora più rapido dell’economia.

Intanto però la svalutazione della lira aumenta, così come aumentano i prezzi, gli sfratti, i licenziamenti e la fame della gente. Oggi puoi prelevare 200$ ogni due settimane ed i pagamenti online non possono superare quella cifra. Così, la popolazione poco a poco viene chiusa in una gabbia sempre più stretta, impossibilitata anche a lasciare il paese.

La rabbia cresce e porta sempre più cittadini a porsi domande, a ricercare le cause. È in questo modo che si comincia a mettere in discussione il sistema, chi l’ha creato, chi lo alimenta e a che scopo lo fa. Si comincia a dubitare di tutto quello che ripetono da anni in televisione e si iniziano a cercare delle risposte e delle alternative. Queste non si possono che trovare nelle strade, nelle piazze, nelle tende e nei comizi di tutti quei gruppi o singoli che si ritrovano e discutono per ore ogni settimana da quel fatidico 17 Ottobre. Non si trovano solo delle risposte, delle possibili soluzioni al proprio problema e a quello del proprio vicino. Ritrovi anche lui, il vicino, quello che appartiene ad una religione ed estrazione diversa, che per motivi diversi anche lui si è stancato della povertà dilaniante, della divisione e lontananza che qualcuno dall’alto ha imposto, della corruzione del sistema economico, politico e sociale che hanno costruito. Lui ne sa di economia e tu ne sai di legge. Vi scambiate le informazioni che possedete e discutete. Poco dopo si aggiunge alla discussione una terza ragazza che viene da una città di montagna ed ha deciso di fermarsi nella capitale per accrescere le grida che si ergono al di là dei muri costruiti per ‘proteggere’ il parlamento. Lei si è laureata tre anni fa in diplomazia ma non è ancora riuscita a trovare lavoro. È giovane, non ha niente da perdere ma tutto da donare. È sveglia, forte e porta con se tanta speranza, proprio come la Rivoluzione.  


·         - Tutto ciò che è stato riportato riguarda la città di Beirut che porta con se, logicamente, la più grande partecipazione di cittadini, tanto per la sua posizione strategica di capitale (con il Parlamento ed altre Istituzioni messe in discussione dai manifestanti) quanto per il tasso più alto di popolazione tra le città libanesi.

La Guerra Civile libanese durò dal 1975 al 1990 e si concluse con la sigla degli accordi di Ta’if. Il bilancio dei morti non è preciso ma se ne contano a migliaia tra la resistenza palestinese ed i musulmani, cristiani e drusi libanesi.